GIOVANNI RUGGIERO
Vedremo poi chi ha vinto e chi ha perso nell’incontro di calcio tra Milan Club e Juventus Club, due squadre di giovanissimi di Parma, di dodici o tredici anni: ragazzini con le spalle strette, forse proprio come quel Nino al quale fu insegnato di «non aver paura a sbagliare un calcio di rigore, perché non è da questi particolari che si giudica un giocatore ». Il campionato che disputano con altri coetanei si chiama elegantemente 'Torneo Fair Play'. Si sa come possano far sul serio i ragazzi quando giocano: un campo vero, regolamentare, di quelli che spezzano il fiato a farli da qui a lì fin sotto la porta avversaria, le scarpette e le magliette originali. Più orgogliosi di tutti quello con il numero 7 di Pato e l’avversario con il 10 di Del Piero. A questa bella partita mancavano soltanto un arbitro vero e un pubblico sincero, corretto e leale, quale avrebbero meritato. Sulla tribuna non c’era tifoseria pagante, ma i genitori – le mamme e i padri – e poi gli zii, i nonni e i cugini che incitavano gli uni o gli altri.
Questa festa, all’improvviso, si è trasformata. Qualcosa l’ha avvelenata, tramutandosi in quello che lo sport non dovrebbe essere e che invece propri i grandi ci mostrano ogni domenica: il tifo cieco, offensivo, belluino, che travolge l’avversario. Tenta di annientarlo e lo disprezza. È andata così che mamme e papà che forse si conoscono, che magari si frequentano e si ritrovano fuori alla stessa scuola a prendere i figli, se le sono date di santa ragione.
L’arbitro avrà fischiato o forse non doveva fischiare un rigore, e questa tifoseria scalmanata ha iniziato a insultarsi e poi a picchiarsi. Una mamma è finita in ospedale.
Questi incontri di calcio – è una moda che sta prendendo piede – si definiscono 'tornei autogestiti e autoarbitrati'. A Parma l’arbitro pare fosse il dirigente di uno dei due club che, probabilmente, ha chiuso un occhio a favore dei suoi o, almeno, di questo è stato accusato.
Doveva restare una partita tra ragazzi, ma quanto è successo diventa paradigma di una esasperazione, di un malessere che avvelena anche un società ristretta che proprio a ragione di questa piccolezza dovrebbe consentire di coltivare rapporti più cordiali e sereni. L’arbitro in questa partita non è semplicemente chi stabilisce se c’è stato oppure no un fallo, ma l’espressione di un’autorità, alla quale i ragazzi, finché fanno tutto sul serio, dovrebbero sottostare, esattamente come vi sono soggetti i calciatori professionisti.
Un giocatore si giudica dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. Francesco De Gregori non sbagliava. E il pubblico? Il pubblico che in questo caso non sta in tribuna a fischiare o ad applaudire, ma resta ciascuno padre e madre, nonno e zio dei ragazzini che sgambettano in campo, che cosa ha insegnato? Una lezione terribile: che lo sport è guerra, che è mors tua vita mea , che l’importante è solo vincere e che la partecipazione è finalizzata solo al successo. Proprio come intendono lo sport le tifoserie più becere, quelle che la domenica trasformano gli stadi in campi di battaglia e riducono ogni gara a un’avvilente tristezza. Solo i ragazzi in campo, mentre le mamme si picchiavano, si sono stretti la mano e hanno vinto tutti. Ognuno di loro si farà, nonostante i grandi, e quest’altro anno – magari – giocherà con la maglia numero sette
DA AVVENIRE 15 MAGGIO 2010
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